Il 5 Luglio 1822 Leopardi affida questa nota dello Zibaldone:
(...) perocchè l'uomo e il vivente non può essere privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l'infelicità non v'è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario,continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell'animale. Non ottenendolo, l'animale è infelice;
Dalla nota si ricavano alcuni concetti interessanti. Innanzitutto emerge un'idea di forte indissolubilità tra felicità e infelicità, tra patimento e felicità. È anzi la coscienza del dolore come componente ineliminabile dell'esistenza che consente anche solo l'immaginare o concepire la perfezione dell'esistenza. In secondo luogo, Leopardi sostiene che tra il polo basso dell'infelicità e del dolore e quello alto della felicità non esiste una gradazione di alternante, bensì una gradazione senza soluzione di continuità tra il minimo e il massimo ingrediente della medesima tastiera esistenziale. Ciò costituisce in un certo senso la premessa per la considerazione finale. Senza aver letto Schopenhauer, Leopardi sostiene che il dolore è nella mancata realizzazione del polo positivo, nella tendenza continuamente mortificata dell'animale-uomo alla pienezza del senso e della realizzazione del sè. Il mancato ottenimento, che è la frustrazione del non conseguire il polo positivo, ma il dover fare i conti con la componente del dolore, anticipa certe oscillazioni e movimenti pendolari che più tardi sarebbero stati appannaggio della filosofia negativa di Danzica ( sebbene in questo caso la dialettica oscillatoria prevede dall'altro polo quello della noia).
"La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia." (Arthur Schopenhauer)
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